APPENNINO e TEMPO…

Di Marzia Fontana

Discorrere di antichi percorsi o passaggi sui fiumi,  chiedendo aiuto alla memoria di un anziano, cercarli e poi ritrovarne i segni, ti fa riassaporare quelle tracce che la storia umana ha lasciato su queste colline e montagne. Di quelle “impronte” che vanno man mano perdendosi ne ritrovi ancora qualcuna: ne ripercorri i passi sopra, lento il tuo camminare, osservi.

Una strada ciottolata ai lati di un passo tra due valli, un pezzo di antico binario morto rimasto, una casa diroccata che ospitava un mulino, un’antica capanna per i pastori, o il passaggio di un antico guado o una teleferica dismessa, o quella rocca riempita di prato, e quella chiesa chiusa là, le sue crepe.

Percorrere in particolare la riva del fiume, e quando il sentiero si interrompe farsi un varco tra acqua, rovi, terra, pietre. E’ un esercizio del tempo (come il flusso della tua storia) “bighellonare” contorto come un fiume di montagna, lungo il fiume. Nelle rive mutevoli del fiume vedere il segnale profondo del rapporto di uomini con l’acqua, lei alimento e vita. Il fiume è un esempio, forse il più intenso del tuo osservare, e i suoi antichi selciati a ridosso, ma anche quelli più su, capanne, muretti, salire scendere… in verità tanti gli spazi e i tempi della storia che il paesaggio di queste montagne offre.

Il paesaggio ti parla di vita che lì c’era. Segni che riconosci, stai osservando.

Però… (ecco, scorrere)

però il tempo passa, ti narra che lui tempo consuma o trasforma.  Che passano gli uomini. Andati via, trascorse vite. Che la natura si riappropria, avanza, ricopre… le pietre (un tempo da mani deposte) cadono, mentre un sentiero si chiude, un argine cede, il tetto infine si disfa. Case tornate bosco. Vociare poi silenzio, solo versi d’uccelli. Bosco, rovi, terra, pietre, uccelli, mentre l’acqua indomita continua a scorrere,  solo lei mutevole costante.

Ecco, che cosa è scorrere.

Il tempo che scorre nell’abbandono è spietato.

Hai la bellezza della natura selvaggia che si riprende il suo spazio,

lei ti ricorda la sua forza incurante di te,

lei che si intreccia mentre l’acqua scorre,

mentre tu hai l’abbandono

(la tua umanità che avevi appoggiato lì non è più)

Eppure altrove fai, uomo sapiente,

costruisci, dirigi, potente tu mai sazio,

altrove sai fare,

ma qui dove nascesti lasci disfare.

Eppure erano tue le mani che lì abitavano, i

piedi che passavano. Padri madri. E vita e lavoro, e voci e schiamazzi. Com’ era allora quel vociare, quei suoni e quegli odori, cosa invece resta oggi, di queste pietre, del loro sgretolarsi:

questo silenzio,

gravità,

intrecci.

Senti che suono ha l’abbandono.

Sgretola, intreccia di rovi e di nidi d’uccello.

Finchè un uomo ti racconta e ricordi: hai la memoria.

Ma lui ti racconta anche il suo pianto.

Senti? (“quando io non ci sarò piu'”)

Tu hai raccontato abbastanza di lui, di loro ricordi?

Ricordi come erano quei luoghi?

Lui ha fatto in tempo a raccontarti?

Ma tu hai ascoltato?

Di ciò che ti avevano consegnato, tu loro futuro, sei stato tu un buon custode?

Guardalo, il tempo.

Sgretola, intreccia di rovi e di nidi d’uccelli.

Ascolta, il silenzio.

Quanto di allora, di loro tu non hai saputo salvare?

Non hai saputo.

Forse è già tardi.

O prima che sia troppo tardi… quel pianto capisci, ora, perchè.

 

” testo, anche se in parte malinconico, che richiama un affetto profondo e storico per i luoghi attorno al Dolo….” Marzia Fontana.